di Simone Bonfante*
Negli ultimi quattro anni diversi giudici di merito sono stati chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità della responsabilità delle persone giuridiche ex D.lgs 231/01 con l’istituto della probation di cui all’art. 168 bis c.p..
Dato questo che conferma la sempre più diffusa applicazione, nelle nostre aule di giustizia, di tale peculiare procedimento speciale inserito nel Libro VI del codice di procedura penale dalla L. n. 67/2014.
È bene tuttavia mettere in chiaro come la sospensione del processo con messa alla prova, si distingua, rispetto agli altri riti alternativi, per una caratteristica fondamentale: l’attiva collaborazione dell’imputato ai fini della positiva definizione del processo a suo carico. Collaborazione a cui pertanto conseguirebbe, nell’ottica del legislatore, la risocializzazione del reo. Non è un caso infatti che, ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p., il giudice possa dichiarare estinto il reato solamente alla luce del “comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni”.
Ed è proprio tale finalità dell’istituto che ha suscitato parecchie perplessità, soprattutto in giurisprudenza, in ordine alla sua effettiva compatibilità con il procedimento volto ad accertare la responsabilità degli enti ex D.lgs 231/01.
Il Tribunale di Milano, infatti, con ordinanza emessa il 27 marzo 2017, ha escluso la messa alla prova dell’ente proprio sulla base, fra l’altro, del rilievo che la stessa si manifesti “…dal punto di vista afflittivo, attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità”. Lo stesso giudice ha menzionato a conforto della propria decisione anche l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte secondo cui: “l’istituito persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene «infranta» la sequenza cognizione-esecuzione della pena in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto”. (Cass. Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, Sorcinelli).
Più di recente invece il G.I.P. di Bologna, pur mostrandosi in parte in disaccordo con le motivazioni addotte dal collega meneghino, ha ritenuto inammissibile l’istanza di sospensione del processo avanzata da una società sulla base dell’importanza che rivesterebbe, nell’economia dell’istituto di cui all’art. 168 bis c.p., l’affidamento ai servizi sociali (ordinanza 10.12.2020, Dott. Alberto Gamberini).
Affidamento cui consegue, sempre nell’ottica di rieducazione e reinserimento, lo svolgimento di attività socialmente utili da parte dell’imputato.
Ebbene, muovendo da tali premesse, il giudice felsineo ha ritenuto del tutto incompatibile con la probation la natura “spersonalizzata” della società (nel caso di specie in particolare in cui gli apicali erano nelle more del processo stati sostituiti). Si è affermato in sostanza che lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei dipendenti, implicherebbe una divergenza tra il soggetto da risocializzare e quello a cui è addebitabile il fatto. Tale attività, si è detto, non rappresenterebbe altro che una forma di risarcimento nei confronti della collettività da parte dell’ente, con evidente frustrazione delle finalità sottese all’introduzione dell’istituto di cui all’art. 168 bis c.p.
Di diverso avviso invece il G.I.P. presso il Tribunale di Modena che, con ordinanza dell’11 dicembre 2019, senza entrare nel merito della compatibilità dell’istituto con la responsabilità ex D.lgs 231/01, ha disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova di un ente tratto a giudizio per frode in commercio.
In particolare il giudice ha valutato favorevolmente il programma trattamentale predisposto dall’UEPE che prevedeva, tra l’altro, lo svolgimento di 60 giorni di lavori di pubblica utilità.
Ora, è evidente come, aldilà della mancanza di una espressa previsione normativa che estenda l’applicabilità alle persone giuridiche della sospensione del processo con messa alla prova (argomento non certo secondario quanto meno de iure condito), ad avviso di chi scrive è assai arduo sostenere che vi sia perfetta incompatibilità di tale istituto, ai sensi dell’art. 35 D.lgs 231/01, con la responsabilità degli enti.
Se è pur vero che il c.d. “sistema 231” già prevede al suo interno numerosi meccanismi premiali (si pensi ad esempio alle attenuanti ricollegabili, ex art. 12, D.lgs 231/01, all’avvenuto risarcimento del danno prima del dibattimento o all’adozione del MOG ex post) è altrettanto vero che il principale limite pare rappresentato dal comma II dell’art. 168 bis c.p., che prevede lo “svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale”.
I lavori di pubblica utilità infatti costituiscono innegabilmente il tratto distintivo della probation, rimarcandone quella finalità rieducativa che, ai sensi dell’art. 27 Cost., è strettamente legata alla natura personale della responsabilità penale.
Sotto questo profilo pertanto, ad avviso di chi scrive, coglie nel segno la citata ordinanza del G.I.P. di Bologna nel sottolineare che: “se il lavoro di pubblica utilità viene a costituire un mero <<costo>> per la società, in quanto viene prestato dai dipendenti della stessa, viene completamente meno la finalità dell’istituto, che non può risolversi in un mero risarcimento a favore della comunità”.
Vero è, come autorevolmente è stato affermato in dottrina (F. Centorame, Enti sotto processo e nuovi orizzonti difensivi. Il diritto alla probation dell’imputato-persona giuridica, in L. Luparia-L. Marafioti-G. Paolozzi (a cura di), Roma, 2018, p. 200) che il processo agli enti, per i numerosi profili di carattere riparativo che presenta, avrebbe una natura “intimamente rieducativa”, ma si tratterebbe comunque di una forma di rieducazione diversa da quella strictu sensu intesa che presuppone, come destinatario, una persona fisica.
Non a caso uno dei principali argomenti di dibattito tra i primi commentatori del D.Lgs 231/01 era rappresentato proprio dalla incompatibilità della finalità rieducativa della pena con l’asserita natura penale della responsabilità dell’ente.
Ciò non toglie che, de iure condendo, anche a fini deflattivi, sarebbe senza dubbio opportuno introdurre un istituto affine a quello previsto dall’art. 168 bis c.p. che contempli una “prova” del tutto compatibile con le caratteristiche e le finalità del sistema sanzionatorio delineato dal D.Lgs. 231/01.
* membro dell’Osservatorio D.lgs 231/01 della Camere Penale di Modena Carl’Alberto Perroux