“Forca e Melassa” (Mimesis Contesti) è l’ultimo contributo a firma Gaetano Insolera sul tema dei complessi rapporti tra giustizia penale, comunicazione e politica. Un libro tanto agile alla lettura quanto sconcertante nei contenuti, che traghetta il lettore dall’antica Grecia ai giorni della pandemia, dall’avvento della televisione e della radio alla comunicazione globale digitale.
L’ingranaggio dei rapporti interni alla citata triade viene così messo a nudo in maniera prospettica, sia sotto il profilo cronologico, sia sotto il profilo dei reciproci condizionamenti, con particolare attenzione alle ripercussioni sul processo penale e, più in generale, sulla giustizia.
Giustizia che rimane al centro del ragionamento, non tanto e non solo come sistema teorico ma come il luogo in cui l’individuo vede la concretizzazione dei propri diritti. Ed è proprio su tale aspetto che il contributo di Insolera ci coglie inermi: nel comunicarci come sia proprio la tutela dei diritti a cedere sotto la scure della forca del processo penale mediatico e invischiata nella melassa delle intersezioni tra politica e populismo della comunicazione.
Da qui, l’idea di porre qualche domanda al Prof. Insolera, per approfondire alcuni temi e spaziare verso diverse prospettive di comune interesse.
Professore, nel suo libro, lei pone particolare attenzione al tema della libertà di espressione del pensiero, quale diritto “a natura variabile” nel tempo e a seconda del consesso sociale nel quale si colloca. Sotto tale profilo, quali possono essere i metodi per contemperare il carattere positivo di tale diritto con le evidenti conseguenze, a carattere, invece, negativo, che discendono dalla sua completa affermazione nei termini di cui alla premessa di Marcello Gallo, secondo cui “i destinatari della comunicazione da occhi e orecchie si fanno voci che intervengono sempre e su tutto… la decisione sembra dipendere… da quanto si vocifera e da quanti sono i vociferanti” (a maggior ragione dove ad essere diffuse siano notizie palesemente false, volte ad indirizzare il consenso)?
Per rispondere alla sua domanda occorre anzitutto prendere atto delle modificazioni che sono intervenute nel rapporto tra media, politica e giustizia penale.
E’ questo il filo conduttore del mio libretto, con una prima conclusione: la influenza sempre più forte dei media, vecchi e nuovi, nei confronti di un ceto politico con attori sempre più deboli, confusi e incapaci di gestire efficacemente e, aggiungerei, in modo decente, l’ ottenimento del consenso elettorale.
Ho cercato anche di individuare quanto il potere dei media si rispecchi nell’operato di quello giudiziario, che appare sempre più convinto dall’idea di svolgere azione politica in un dialogo diretto con le istanze sociali che ritiene di dover cogliere.
Così non penso che si possa più parlare di un ordine giudiziario dotato di un potere limitato rispetto agli altri poteri dello Stato di diritto.
Ecco che anche la questione della libera manifestazione del pensiero, della libertà di stampa, del diritto di informazione etc., non può prescindere dal contesto che ho provato a sintetizzare.
Il vento forte che spira per una decriminalizzazione dei reati di diffamazione penso che meriti una riflessione critica.
In “Forca e melassa” ricordo perplessità già espresse in passato sui miti costruiti attorno alla “Libera Stampa”, miti che oggi più che mai non prestano l’attenzione dovuta al danno che può subire un diritto della persona – quello all’ onore e alla reputazione – che, in taluni casi può essere devastante.
Oggi, per quella vertiginosa trasformazione dei rapporti di cui ho detto, il tema ha assunto aspetti drammatici: per i nessi tra uffici di procura, polizia e media.
Ben prima di un’ imputazione definitiva, le notizie diramate da PM e polizie, accompagnate da filmati e brani di captazioni foniche, rendono impossibile una tutela dell’innocente o anche solo della presunzione di innocenza.
L’ esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, iscritto nel pomposo mantra del “diritto di informare e di essere informati”, è affermato sulla base della storia raccontata e documentata solo dall’accusa.
Non vi è protezione per chi cada nel marchingegno. Per cogliere questo aspetto basti pensare alle difficoltà che ha incontrato il recente recepimento della direttiva UE del 2016 sulla presunzione di innocenza.
La questione non è stata tanto alimentata dall’affermazione del principio in sé – esso trova va già sede nella nostra Costituzione.
Ad essere ostacolati erano proprio i conseguenti limiti posti a quelle comunicazioni pubbliche delle Procure che autorizzano i media al racconto di una colpevolezza già all’inizio delle indagini e in occasione dei c.d atti a sorpresa.
Per riprendere un’efficace osservazione di Sabino Cassese: oggi “le Procure non sono più in funzione dell’accusa, ma in funzione del giudizio”.
Tutto questo è un formidabile cemento che orienta l’operato dei due poteri, quello giudiziario e quello mediatico.
Le capacità di prestazione dell’endiadi sono sotto gli occhi di chi pratica quotidianamente il “mestiere delle leggi”.
Provo al elencarle, da quelle forse meno inquietanti e quelle che lo sono maggiormente.
Chi ha la disavventura di finire nella pista del circo mediatico-giudiziario, non ha chances effettive di essere tutelato rispetto alla sua preventiva definizione di “colpevole”. A fronte di una querela per diffamazione, sono rarissimi i casi in cui viene esercitata l’ azione penale. Soprattutto le maggiori testate giornalistiche hanno una gestione della cronaca giudiziaria che non può fare a meno di un benevolo rapporto con gli uffici giudiziari e gli apparati di polizia.
Anche in ragione dell’intoccabile indistinta appartenenza di PM e giudici, i racconti sui presunti colpevoli trasmigrano facilmente nei provvedimenti giurisdizionali durante le indagini preliminari e confermano decisioni benevole in tema di diffamazione. Come è noto a ciò corrisponde il disinteresse della cronaca per eventuali provvedimenti che smentiscano le ipotesi di accusa enfatizzate in precedenza.
La questione si è fatta ancora più drammatica con l’ affermarsi delle “verità” o falsità circolanti nella rete.
In questo caso, che ho cercato di richiamare, altri “mostri” possono aggredire diritti fondamentali della persona e rendono ulteriormente difficile la loro protezione con i mezzi tradizionali apprestati dalla legge penale. Basti solo pensare alle difficoltà per identificare gli autori dei reati. Né può essere trascurato il tema dei discorsi dell’ odio nella rete: a mio giudizio, a determinate condizioni, devono essere colti nella loro dimensione politica, di concreto pericolo per le democrazie liberali.
Modificando la prospettiva e accedendo alla provocazione di Giovanni Fiandaca secondo cui il diritto penale stesso, in una qualche maniera, è populista, con ciò intendendo che ogni Codice Penale, per natura, risulta essere una specie di marcatore simbolico della identità culturale e valoriale di un popolo, dovremmo concludere che, al variare delle sensibilità e delle opinioni, dovrebbe associarsi un mutamento della legislazione penale?
Non posso non condividere l’opinione di Giovanni Fiandaca.
Con una formula sintetica direi che, in definitiva, ogni società, anche in democrazia, finisce con avere il sistema penale che si merita e che corrisponde al suo sentire.
Si tratta di una provocazione che però trova riscontro nell’ affermazione elettorale di pensieri, più che deboli, inesistenti, accomunati da concezioni della libertà e dell’ autonomia dei singoli frammentate nell’ inseguimento di risposte immediate: l’ eterna ricetta di tutte le demagogie.
Ed in questo caso come potrebbero variare i rapporti tra i poteri legislativo e giudiziario nei confronti del c.d. “quarto potere”, quello che le sensibilità e le opinioni è in grado di aggregarle e variarle, ossia i media? Nello specifico: quali conseguenze possono derivare dall’affermazione del principio di autonomia del Giudice laddove, per citare Sciascia, “non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”?
E’ difficilmente discutibile come le stagioni dei governi populisti – per altro preceduti da derive che avevano caratterizzato anche i diversi esecutivi che si erano succeduti dopo la fine della prima Repubblica – abbiano portato a ulteriori livelli il giustizialismo populista.
Legislativo ed esecutivo hanno trovato – salvo rare eccezioni, di nicchia – un robusto sostegno dei media, a partire dalla indecente comunicazione televisiva.
Come mi è capitato di notare in varie occasioni nella grammatica penalistica di uno Stato di diritto costituzionale come il nostro, contro gli abusi del potere legislativo, il contrappeso è costituito dal potere di invalidazione attribuito alla Corte costituzionale.
Perché questa realtà delle nostre istituzioni non è in grado di tranquillizzarci completamente?
Penso ad almeno tre considerazioni.
In presenza di un potere dei media in larga parte acquiescente verso le derive illiberali e corifeo nella spregiudicata alimentazione di ogni insicurezza quando affronta la questione criminale, si è proceduto all’ avvelenamento dei pozzi del diritto penale liberale e garantista, faticosamente disegnato nelle stagioni della prima Repubblica.
E così, nel confronto politico elettorale, qualsiasi idea di “bonifica” dei pozzi, sarà tacciata delle peggiori intenzioni collusive: con le mafie, la corruzione, i poteri forti etc.
In secondo luogo la natura incidentale che caratterizza il nostro accesso alla Corte, implica un ascolto da parte del potere giudiziario.
E qui, ai margini della strettoia – per usare una metafora del cammino difficile della libertà tra la forza scatenata del Leviatano e la gabbia di norme sociali senza lo Stato – si apre una paurosa voragine che merita di essere considerata.
Quanto il ripudio di un vincolo al testo, alla Legge, ma anche a quello della Costituzione, in nome di libere ortopedie di scopo da parte del giudice, può contrastare la richiesta di un controllo di costituzionalità?
Ancora, si tratta di questione sulla quale rifletto da qualche anno insieme ad altri penalisti e soprattutto con studiosi dell’ ordinamento giudiziario: quanto i sistemi di reclutamento, di formazione e progressione di carriera dei nostri giudici, offrono garanzie sulla loro osservanza dei limiti legali posti alla loro autonomia e indipendenza? Quanto possono prevalere autonome concezioni e finalità di Giustizia maturati nel contesto dell’ ordine di appartenenza, nel quale – è difficile negarlo – si sono definite fazioni nelle quali si è prodotto un intreccio tra istanze corporative e sindacali, ideologia e collateralità politica?
In conseguenza del reciproco condizionamento tra potere politico, giustizia penale e comunicazione, sono state varate riforme legislative apertamente votate a fornire risposta ad istanze a carattere “populista”. Ciò potrà – a Suo avviso – portare ad interventi sempre più incisivi della Corte Costituzionale? Assisteremo, in altri termini, ad un nuovo protagonismo del Giudice delle Leggi che ne ridisegnerà i contorni ponendone in ancora maggior luce il ruolo di contraltare al potere legislativo? Infine, quanto la modificazione del quadro politico influisce sugli orientamenti del Giudice costituzionale e sull’equilibrio che ne delinea la composizione?
Nell’ esempio degli Stati uniti che, nella sua diversità, costituisce il prototipo della giustizia costituzionale, cogliamo una attenzione speciale, dedicata da politici, esperti e media, alla fisionomia e alla storia ideologica dei candidati alla Corte suprema.
Come dicevo, realtà radicalmente diversa.
Ciò che stupisce tuttavia è la rarità del tema nel discorso pubblico, nel nostro mondo: o meglio a volte lo troviamo a proposito delle faticose nomine della componente parlamentare.
Forse mi sbaglio, ma mi sembrano lontani i tempi in cui le designazioni non si limitavano, ad esempio, a valutare l’ inquadramento nella docenza universitaria, nelle supreme magistrature o nell’ esercizio dell’ avvocatura, ma si indirizzavano verso figure di particolare e riconosciuto prestigio intellettuale.
E l’Avvocato? Quale è il ruolo che l’Avvocatura può (rectius, deve) rivestire in un tale momento storico ed in un tale contesto? Lei ci parla di una professione ritenuta “indigesta, se autonoma e libera”, eppure, allo stesso tempo, l’Avvocatura si pone come strumento fondamentale nel processo di tutela dei diritti esistenti e di “giustiziabilità” dei diritti nuovi, per usare le parole di Giovanni Maria Flick, in tal modo assumento ruolo senz’altro a carattere pubblico. Le pare soluzione percorribile ed efficace quella di inserire la figura dell’Avvocato all’interno della Carta Costituzionale?
Anche a questo proposito il discorso potrebbe, e dovrebbe, essere lungo. Mi limito a due osservazioni.
Anzitutto un giudizio, forse consolatorio.
La tempesta giustizialista del populismo penale, di cui ho parlato nel mio libretto e che ho osservato, in un’ altro scritto, a partire dai risultati elettorali del 2013, hanno visto solo l’ avvocatura penale organizzata nell’Unione delle camere penali (non certo l’ ANM!) impegnata nella difesa di un decente sistema penale.
La seconda osservazione è ispirata dal pessimismo.
Non solo per l’ emergenza sanitaria, assistiamo a condizioni di lavoro e di sussistenza sempre più difficili per l’ esercizio autonomo e libero della nostra professione.
Quanto alla rappresentazione mediatica, la situazione attuale è efficacemente colta nella copertina che ho scelto per “Forca e melassa”: La decapitazione di mercanti e avvocati di Parigi disobbedienti.
Forca e melassa
Gaetano Insolera
Mimesis Edizioni, 2021
DESCRIZIONE BREVE
Saette che si infilano nell’ordito di una elegante invettiva politico-criminale di cui da tempo si avvertiva il bisogno. Forca e melassa è l’ultima brillante fatica intellettuale di Gaetano Insolera, che già a partire dal titolo non lascia spazio a equivoci circa i deleteri rapporti populistici che si vanno consolidando tra il corpo elettorale, la giustizia penale e le nuove forme di comunicazione.