di Guido Sola, Presidente della Camera Penale di Modena
Vent’anni di camera penale rappresentano un momento di fisiologica riflessione in punto di percorsi: fatti, da fare, e da calare nell’ambito di un contesto storico complesso, dal punto di vista politico come anche culturale.Ma non potrebbe essere altrimenti: il diritto è politica; il diritto è cultura – dal punto di vista giuridico. Come scriveva elegantemente Marcello Veneziani, il «senso della tradizione» «consente paragoni», perché «chi ne è privo non conosce altro che il suo presente, che vive nella dimensione dell’assoluto». E perché “tradere” significa tramandare. Con tutto quanto ne consegue sul piano proprio dei principi che i nostri Maestri ci hanno tramandato e che, soprattutto oggi, noi siamo chiamati a difendere dalle invasioni delle orde populiste e giustizialiste.
Ma la tradizione non può essere l’unica chiave di lettura di questo nostro match.
Perché le sfide che ci attendono sono sfide future e, dunque, sfide che, proprio in quanto tali, non possono che vedere come protagonista l'”Avvocato di domani”. Un avvocato professionalmente attrezzato e, se possibile, specializzato. Ma anche un avvocato che non può non avere chiara l’agenda delle priorità, politiche e culturali, proprie anche della nostra professione.
Dobbiamo rimettere al centro della scena le persone e la dignità delle persone.
Questo è un Paese che s’è dimenticato dell’esistenza, nella Costituzione e nella legge ordinaria, della presunzione d’innocenza. Questo è un Paese che, come osservava Annalisa Chirico, ha degradato la presunzione d’innocenza a mero artificio. Viviamo un’epoca caratterizzata da indagini preliminari che sfociano in condanne preventive, da dibattimenti che contrassegnano riti celebrati nell’assoluto disinteresse da parte della società. E’ inaccettabile. Non solo perché la presunzione d’innocenza è primaria garanzia posta a protezione di primari diritti propri d’ognuno di noi, ma anche perché la presunzione d’innocenza rappresenta la base propria del giusto processo: finché non comprenderemo che la presunzione d’innocenza contrassegna il primo limite concettuale proprio del principio del libero convincimento del giudice nella quotidiana lettura delle prove, in questo Paese non esisterà mai alcun giusto processo.
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra libertà e cattività.
Questo è un Paese incapace di comprendere che, nell’ambito d’un sistema processuale baricentro del quale è la presunzione d’innocenza, la libertà è la regola e la cattività è la stretta eccezione. Ancora oggi, in Italia, si registrino circa mille casi d’ingiusta detenzione ogni anno. Alla data del 31 dicembre 2017 – questo ci dicono, ancora una volta, le statistiche ministeriali -, i detenuti in Italia erano 56.289. Di questi, 19.390 erano in attesa di giudizio.
Ciò significa che, ancora oggi, più d’un terzo di coloro che si trovano ristretti nella propria libertà personale è imputato e, dunque, presunto innocente.
Dobbiamo “ripensare” la prescrizione.
Solamente un Paese incivile rinuncia alla prescrizione sul presupposto che la stessa contrassegni garanzia di impunità. La prescrizione è requisito di efficienza procedurale e, prima ancora, presidio di garanzia di ogni cittadino contro azioni potenzialmente persecutorie. Chi afferma che il processo penale italiano è ex se una pena, afferma il vero. In un Paese che pretenda d’essere civile, la durata di un processo non può non essere calibrata sulla durata della vita delle persone.
Dobbiamo “ripensare” l’unitarietà della giurisdizione.
Ha ragione Oreste Dominioni: la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri è davvero la madre di tutte le riforme. Finché giudice e pubblico ministero saranno colleghi e, dunque, contigui, anche solo dal punto di vista culturale, le architetture concettuali proprie del codice di procedura penale del 1988 saranno sempre ineluttabilmente destinate a flettere. Perché un processo penale di matrice (seppur) tendenzialmente accusatoria può funzionare unicamente laddove il giudice sia davvero terzo e davvero imparziale. E perché separare le carriere di giudici e pubblici ministeri non significa unicamente risolvere un problema di matrice ordinamentale, che pure esiste, ma significa anche e soprattutto recuperare il giudice appunto a quella cultura del limite che gli dovrebbe essere sempre propria.
Dobbiamo “ripensare” la funzione del processo penale, sempre più visto come uno strumento di controllo sociale, come una macchina moralizzatrice, come un mezzo per realizzare quello stato etico figlio d’un’inaccettabile visione giansenista della società.
Cosa che, semplicemente, non è.
Dobbiamo “ripensare” l’attività processuale penale, generatrice di danni da irragionevole durata del processo, da limitazione della iniziativa economica privata, e non solo.
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra avvocatura e magistratura.
Il dialogo, in chiave politica e culturale, è possibile e doveroso. Come insegnava Piero Calamandrei, «[i]l [vero] segreto della giustizia sta [ancora oggi] in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore».
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra magistratura e politica.
Comprendo […] la posizione di chi afferma che anche i magistrati hanno diritto di partecipare in modo attivo alla vita politica del Paese. Osservo, però, che, in Italia, presso il ministero della giustizia, sono distaccati circa settanta magistrati. E’ sensato anche solo ipotizzare che settanta magistrati distaccati presso l’anzidetto ministero e, in particolare, presso l’ufficio legislativo dell’anzidetto ministero, non determinino in modo netto la politica di questo Paese?
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra magistratura e legislatore.
Sempre più spesso, oggi, accade che la magistratura si veda costretta a colmare le lacune della politica. Il tema delle interpretazioni c.d. creative è tema d’assoluta attualità dal punto di vista giuridico. Basti considerare, in proposito, che, all’indomani della sentenza europea De Tomaso c. Italia, vi sono state sentenze anche di legittimità che hanno ritenuto corretto affermare che, con quella sentenza, la corte e.d.u. avesse inteso sdoganare le interpretazioni cc.dd. creative e avesse inteso affermare che, attraverso le stesse, i giudici potessero fare le leggi. Peccato che la corte e.d.u., come noto, s’occupi, non solo di sistemi di civil law, ma anche di sistemi di common law e che di ciò, io credo, sarebbe stato prudente tenere debito conto prima d’affermare con sicumera quanto precede. Ma il punto, anche in questo caso, è altro: dare vita a interpretazioni cc.dd. creative non significa forse fare scelte valoriali? E fare scelte valoriali non significa forse fare politica?
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra magistratura e media.
Per quanto alcuni magistrati – penso, ad esempio, a Edmondo Bruti Liberati – abbiano stigmatizzato anche recentemente i «protagonism[i] mediatic[i]» propri di “certi” colleghi, parlando espressamente di «controproducenti divagazioni», è un fatto che i rapporti attualmente in essere tra giustizia e media risultino sovente caratterizzati da visioni «magistratocentriche» del fenomeno. Attenzione: perché parlare direttamente con i media significa orientare l’opinione pubblica. E orientare l’opinione pubblica significa fare politica.
Dobbiamo “ripensare” i rapporti tra giustizia e media.
In Italia impera, da anni, un nuovo e incivile rito speciale chiamato processo mass-mediatico. Un nuovo e incivile rito speciale, immediatamente fruibile dall’opinione pubblica, che ricostruisce i cc.dd. lost facts in modo libero, obliterando le regole.
Dobbiamo “ripensare” le misure di prevenzione patrimoniale.
In questo Paese, sovente accade che l’iniziativa economica privata collassi in conseguenza di penetranti sequestri preventivi posti in essere ben prima che s’addivenga a decidere della confisca della res. Con la conseguenza che, a prescindere dalla decisione che sarà adottata in merito, non latente, nelle more, è il c.d. rischio da uscita dal mercato dell’”impresa”. Non ignoro ratio e importanza dell’istituto del sequestro preventivo. Osservo, però, che, anche in materia di misure di prevenzione patrimoniali, come sovente accade in Italia, s’è recentemente legiferato sulla base dell’emozione popolare: nel settembre 2015, come ricorderete, la procura della Repubblica presso il tribunale di Caltanisetta rendeva pubblica la c.d. inchiesta Saguto, svelando con ciò quello che la stampa non ha avuto remore a definire il “cerchio magico” della gestione dei beni sequestrati e confiscati a Cosa Nostra. L’anzidetta inchiesta non s’abbatteva solo sull’anti-mafia […], ma s’abbatteva anche sulla magistratura e, soprattutto, sul legislatore, in allora impegnato a revisionare la disciplina prevista in materia di misure di prevenzione patrimoniali. E’ anche su queste basi che s’è addivenuti ad equiparare corruzione e mafia – cosa, invero, censurabile già sul piano proprio delle categorie ontologiche -. E’ anche su queste basi che s’è addivenuti ad espandere ulteriormente la sfera applicativa propria dell’art. 12 sexies. Ed è anche su queste basi che s’è addivenuti a comprimere ulteriormente i già labili perimetri difensivi in materia di prova della lecita provenienza dei beni confiscandi. Ciò – preme osservare – in contesto in cui a venire qui in emergenza è una novella – di matrice, senza dubbio alcuno, giacobina – che depotenzia gli autorevoli dicta in materia, non solo della Corte Costituzionale, non solo della Corte di cassazione – anche a sezioni unite -, ma anche della Corte e.d.u. Ricordo a me stesso – perché di ciò, allorquando si intendesse davvero ripensare la materia delle misure di prevenzione patrimoniali, si dovrà, credo, tenere debito conto – che, nella sentenza De Tomaso c. Italia, la Corte e.d.u. non ebbe remore a definire le misure di prevenzione patrimoniali un’«anomalia tutta italiana».
Dobbiamo “ripensare” le emergenze.
La criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione sono, tutte, problematiche serie; nessuno ne discute. Ma sono anche “sempreverdi emergenze” che, come da miglior tradizione giuridica italiana, giustificano, ancora oggi, scarrocciamenti verso lidi improntati alla legislazione dell’emergenza e, per tale via, a quelle che sono vere e proprie sospensioni di diritti costituzionalmente garantiti. E’ inaccettabile.
Perché, nell’ambito d’uno stato democratico costituzionale, la Costituzione non può non rappresentare quella «legge […]» capace d’offrire, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, «protezione [a] tutte le classi di uomini». «Mai» – c’insegna la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America – «fu concepita dall’intelletto umano una
dottrina con conseguenze più deleterie di quella che implica che ogni […] disposizione [della Costituzione] possa essere sospesa nell’ambito di una qualunque emergenza di rilievo dal governo […]. [Perché l]a Costituzione […] conferisce al governo tutti i poteri che gli occorrono per garantire la propria sopravvivenza».
Dobbiamo “ripensare” l’esecuzione penale.
Abbiamo fatto tutti tanto affinché la riforma dell’ordinamento penitenziario vedesse infine la luce. E abbiamo, senza dubbio alcuno, perso un’occasione importantissima per passare da un’esecuzione penale “vecchio stampo” ad un’esecuzione penale, anche concettualmente, moderna e, dunque, in linea con il dettato costituzionale. Ma c’è un problema. La diretta esperienza vissuta nella commissione ministeriale chiamata a scrivere la legge d’ordinamento penitenziario minorile m’ha permesso di toccare con mano il fatto che questo Paese, dal punto di vista culturale, non è pronto. Non è pronto nemmeno a “pensare lontanamente” che l’opera di rieducazione che la Costituzione impone in favore di chi sia stato condannato con sentenza irrevocabile possa essere un problema della società e, dunque, d’ognuno di noi. Ancora oggi, il “sentire comune” di questo Paese, è quello che fa leva sul concetto di “buttare via la chiave” e punto. Occorre lavorare ancora per preparare il terreno dal punto di vista culturale.
Dobbiamo “ripensare” le aspettative.
Cosa s’aspetta, oggi, la società dalla giustizia? Chi afferma che, in Italia, oggi, ha vinto la giuristocrazia – intesa essa come sinonimo di totalitarismo giudiziario che ribalta i tradizionali rapporti di forza tra magistratura e politica -, a mio avviso, afferma il vero. Chi afferma che, in Italia, oggi, impera un patologico gigantismo della giurisdizione ammantato di aspettative etiche, a mio avviso, afferma il vero.
Basti pensare, in proposito, alla concreta declinazione delle aree programmatico/contrattuali che il Governo giallo-verde ha inteso dedicare alla «Giustizia rapida ed efficiente» e alla «Lotta alla corruzione». E basti pensare in proposito alla proposta ivi avanzata […] d’introdurre nell’ordinamento giuridico la figura dell’agente provocatore in funzione anti-corruzione. Ha ragione Raffaele Cantone: pensare di introdurre nell’ordinamento giuridico la figura dell’agente provocatore non significa “scoprire” reati, bensì «fare test [appunto] etici sulla capacità di resistere [propria del presunto corrotto]».
Queste sono, seppur per sommi capi, le sfide future che attendono l'”Avvocato di domani”.
E, se così è, diventa allora pressoché automatico interrogarsi circa il contributo che, nell’affrontare le stesse, può dare la Camera Penale.
Contrariamente a quanto si crede, la camera penale non è unicamente un’associazione di avvocati. La camera penale – la nostra camera penale, quella che Vittorio Rossi e, con lui, i soci fondatori ci hanno tramandato – è anche una famiglia. Una famiglia di colleghi e, sovente, di amici, che, con passione e spirito di servizio, combatte quotidianamente per difendere la nostra cultura di minoranza. Ma la camera penale è anche e prima ancora un’idea. E’ un’idea di libertà.
«L’essenza della libertà» – scriveva Isaiah Berlin – «consiste nel diritto di resistere, nel diritto di essere impopolari, nel diritto di schierarsi in difesa delle proprie convinzioni per il semplice fatto che esse sono tue».
Questa, nella mia ottica, è la camera penale.
Con la conseguenza, nella mia ottica, che la vera mission della camera penale è quella di fungere da pilotina. Una pilotina chiamata a condurre fuori dal porto – da quello che non esito a definire «porto delle nebbie» – la nave del garantismo. Che può e deve riprendere il mare aperto.
Perché essere garantisti non è un optional.
Nell’ambito d’un sistema processuale scolpito nell’art. 27 Cost., essere garantisti è un dovere. Un dovere costituzionalmente imposto.
Il compito dell'”Avvocato di domani”?
Sono perfettamente consapevole che, nell’ambito di questa nostra società della tabula rasa, non v’è più nessuna motivazione «per dedicare la vita a [qualcosa che sia] destinat[o] a durare oltre il [nostro] tempo».
Ma questa impostazione non può e non deve frenare noi “Avvocati di domani”. Perché noi “Avvocati di domani” dobbiamo trovare nella nostra tradizione – quella tradizione che ci consente di «spostare il nostro punto di vista dalla foglia caduca all’albero» – la forza di buttare il cuore al di là di quest’ostacolo. Dobbiamo maturare una nostra visione, politica e culturale, della società. Dobbiamo abbattere gli steccati propri della nostra autoreferenzialità. Dobbiamo aprirci alla società complessivamente considerata. Dobbiamo essere capaci di elaborare idee in grado di risvegliare le coscienze. Non possiamo pretendere di coltivare il campo della politica senza avere prima arato quello della cultura. Dobbiamo essere capaci di proporre valori-base sui quali la politica possa sagomare corrette linee di azione. Non possiamo pretendere di coltivare il campo della politica senza avere prima arato quello della cultura.
Dobbiamo davvero fare tutto ciò che ci è concretamente possibile fare, nelle aule di giustizia, nei convegni, nei seminari, nelle scuole, nelle piazze e nelle strade, affinché il futuro dell’Italia appartenga anche a noi “Avvocati di domani”.
* Relazione introduttiva del Ventennale della Camera Penale di Modena – Villa Cesi, 26 maggio 2018